martedì 3 febbraio 2009

Misurare la vita con i passi

Essendo un maratoneta ho trovato l'articolo che riporto, molto fedele.

Misurare la vita con i passi, di Ugo Riccarelli, pubblicato su Il Sole-24 Ore di domenica 19 dicembre 2004, pag.31 dell'inserto domenicale

Correre la maratona vuol dire misurare la propria vita passo dopo passo. I piedi, lanciati a rincorrersi, le gambe secche, madide di sudore, gli occhi fissi, i maratoneti si aggrappano all'aria come i ciclisti alle loro biciclette, fratelli di fatica, scalatori di vette lunghe quarantadue chilometri. Senz'altro, esprimono tutto il fascino di una corsa tirata allo spasimo, la stessa che quel mattocchio di Filippide si inventò, il 10 di agosto del 490 avanti Cristo, sulla piana di Maratona. Lui, il greco, era un emerodromo, gente che per mestiere era capace di correre un giorno intero e più, a portare messaggi e notizie per conto di generali e politici. Qui l'aggettivo "mitico" non è sprecato, che gente come il nostro Filippide era capace di bersi 200 chilometri in 15 ore … . Quel giorno, il giorno in cui gli ateniesi ricacciarono in mare i persiani, lui se ne bevve tutti d'un fiato quarantadue, da Maratona ad Atene, per annunciare la vittoria, dopo che, secondo Erotodo, nei quattro giorni precedenti era andato e venuto da Sparta coprendone qualche altro centinaio. Per questo, probabilmente, stramazzò con la vita consumata dalla corsa nei pressi dell'Acropoli, la notizia della vittoria nel suo ultimo respiro. Sicuramente è anche in questa origine eroica che risiede il fascino di chi oggi, che telefonini e altre diavolerie hanno reso inutili gli emerodromi, si getta dentro questo rosario di chilometri. E in questa distanza, ribattuta a ogni passo proprio come una preghiera, la verità si presenta prima o poi di fronte, come lo Stelvio per le biciclette o la Streiff per gli sciatori. Dopo il trentesimo chilometro i nodi vengono al pettine e da lì in poi la maratona comincia a disegnare i profili dei volti che noi portiamo nei ricordi, la smorfia di Zatopek, lo sguardo allucinato di Gelindo Bordin, i piedi scalzi, duri come il marmo di Abebe Bikila al cospetto del Colosseo. A queste figure, sempre, noi ci appendiamo, tratteniamo con loro il respiro, controlliamo il distacco dal rivale, assistiamo a speranze che si spezzano all'improvviso come un cracker, a passi che oppressi da un'improvvisa pesantezza, da battiti d'ala di farfalla diventano blocchi di marmo. Là dentro, in quei passi, c'è probabilmente tutto il nostro destino di uomini, c'è la leggerezza e la speranza, il dolore e la gioia, la bellezza e l'orrore, la paura e la vittoria. C'è qualcosa, allora, che nonostante tutto, è rimasto uguale dal 490 avanti Cristo a oggi e che sta in quello spazio di circa due ore in cui tutto si apre e si conclude, in cui un'intera vita viene condensata a forza di correre, di spremere il tempo e i muscoli, dietro al fantasma di Filippide. Oggi, primi anni del XXI secolo, proprio sull'ombra di quel fantasma le maratone si sono moltiplicate, così che ogni grande città presenta nugoli di formiche, a migliaia, pronte a cimentarsi con quel nome che è diventato mito.

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